Un’opera corale, specchio dei nostri giorni

Pubblicato
Lunedì
4 marzo 2024

Nuovo progetto (2)
Nuovo progetto (2)

Intervista doppia a Matteo Franceschini e Stefano Simone Pintor

Come siete arrivati all’idea di mettere in scena Dorian Gray?

Matteo Franceschini – Il ritratto di Dorian Gray mi ha sempre affascinato per la forza dei contenuti che veicola e per l’atemporalità dei temi che tratta. Ho riletto il romanzo una decina d’anni fa ed ho subito percepito le potenzialità di un adattamento operistico. Nell’ambito della collaborazione con la Fondazione Haydn come artista associato iniziata nel 2019, con la Direzione Artistica avevamo programmato la realizzazione di una nuova opera. Con Matthias Lošek abbiamo lavorato su alcune interessanti ipotesi di soggetto, ma la scelta è caduta spontaneamente su Dorian Gray. Stefano Simone Pintor è stato rapidamente coinvolto prima come librettista e poi come regista. Da qui è partita una collaborazione molto stretta.

Stefano Simone Pintor – La collaborazione con la Fondazione Haydn è iniziata nel 2018 con la messa in scena di un’altra opera contemporanea, Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse. Da lì è nato un rapporto fruttuoso che è proseguito nel 2022 con Falcone. Il tempo sospeso del volo, un altro bel progetto di opera contemporanea. Ora invece arriva Dorian Gray, che fin dall’inizio ha convinto sia me che Matteo Franceschini per il suo naturale potere immaginifico. Confrontandoci con il testo, andando sempre più a fondo e lavorando alla sua traduzione operistica, abbiamo subito colto la forte attualità di molti aspetti che lo attraversano.

Quale è stato il vostro approccio al testo e alla costruzione dell’opera?

Stefano Simone Pintor – La parte interessante e più lunga di questo progetto è stata la costruzione della struttura. Sono partito da una frase di Wilde: “In Dorian Gray ogni uomo vede i propri peccati. Quali siano i peccati di Dorian Gray nessuno lo sa. Li trova colui che li ha commessi”. L’attualità del testo nasce dal fatto che siamo noi lettori di oggi che la rendiamo tale, lo completiamo con le nostre immagini e desideri più reconditi, con il nostro portato di esperienze. Questo ci ha portati a ragionare sulla possibilità che fosse Dorian Gray stesso a essere il ritratto di tutti gli altri. Non a caso, Wilde farà dire a Harry Wotton che il vero capolavoro è la vita di Dorian, non il ritratto dipinto da Basil Hallward. Abbiamo deciso di suddividere l’opera in sei capitoli, tanti quanti i sei personaggi secondari: oltre ad essi, c’è Dorian Gray, una sorta di presenza inafferrabile e ineffabile. Alla fine, la scrittura del testo, delle parole da scegliere, è stata una sorta di cesellatura finale.

Matteo Franceschini – È proprio questa intenzione di coralità che è trasversale nell’opera e parte dalla comunione di intenti creativi tra me e Stefano. Gran parte del lavoro è stato fatto, come detto, sul soggetto: da lì nasce tutto. La centralità dei sette personaggi, sette come i peccati capitali, è particolarmente importante.

Matteo Franceschini, il lavoro impostato con l’orchestra e i cantanti, come è stato?

Nella composizione di un’opera è per me fondamentale partire dalla vocalità. Considero la voce come lo strumento teatrale per eccellenza; non appena abbiamo una voce in scena che parla, canta o sussurra, si fa teatro. In Dorian Gray ho deciso di lavorare su una vocalità estremizzata, allargando le estensioni e cercando nuove soluzioni timbriche. Una ricerca dettata dalla personalità dei protagonisti e da come, con Stefano, abbiamo deciso di rappresentarli: potenti, radicali, ambigui. Il suono orchestrale, pur materializzandosi concretamente nella fase finale della produzione, è per me intrinseco ai personaggi stessi. L’orchestra non accompagna semplicemente ma “è” dentro ogni personaggio e dentro l’azione stessa.

Stefano Simone Pintor, per quanto riguarda la regia, cosa ci dobbiamo aspettare?

Si diceva che la potenza del testo di Wilde sta tutta nella capacità di non descrivere, ma di far immaginare al lettore i peccati di Dorian. La difficoltà, dal punto di vista della regia, è stata quella di fare un’opera su una cosa che è totalmente immaginata e di farlo attraverso un linguaggio, quello teatrale, che non può prescindere da una componente visiva intrinseca. Ho pensato allora di giocare sull’illusione e sull’allusione. Tutta l’azione è racchiusa in una grande cornice, come se quello che vediamo non fosse altro che una grande tela in continuo divenire, o uno specchio, il nostro specchio. I personaggi e i luoghi dell’opera appaiono e scompaiono continuamente sotto gli occhi dello spettatore. Tutto ciò che vediamo in scena diventa quindi un ritratto vivente delle tante situazioni che ritroviamo nel nostro quotidiano. Le cornici si intersecano fra loro così come si intersecano fra loro lo spazio e il tempo. Questo aspetto non è legato solo alla ricerca di un’estetica teatrale, all’idea di rappresentare la molteplicità, l’intreccio di storie, vite e personaggi.

Di cosa vi siete nutriti per lavorare su quest’opera?

Stefano Simone Pintor – Nello studio preliminare sono state importanti le lettere di Wilde e del De profundis, ma anche i testi che hanno ispirato Il ritratto di Dorian Gray come il romanzo A Ritroso di Huysmans e il filone della leggenda faustiana, il mito del patto con il diavolo e poi il tema del doppio, che ha attraversato anche gli studi della psicologia di quel tempo. È stato anche importante un testo di Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi. Ma non c’è nulla che mi ha ispirato di più dei media di oggi: ci sono alcune tematiche particolarmente difficili in quest’opera, come la violenza o l’impossibilità di riconoscere un distacco amoroso, che purtroppo erano onnipresenti nella cronaca quotidiana mentre costruivamo questo progetto e che lo hanno inevitabilmente alimentato.

Matteo Franceschini – È interessante, forse, girare la domanda. Penso che ogni progetto che decidiamo di fare oggi sia legato a doppio filo a quello che viviamo: possono essere tematiche importanti e profonde alle quali a volte non sappiamo dare una risposta, oppure esperienze di vita più semplici ma altrettanto significative e ispiranti. Penso quindi che sia la nostra quotidianità e la percezione che abbiamo di essa che ci ha portato verso Dorian Gray. Al di là della bellezza del romanzo e del periodo vittoriano a me caro, nel testo di Wilde c’è qualcosa di profondo ed estremamente attuale.

Bisognerebbe vedere Dorian Gray perché…

Stefano Simone Pintor – Prima di tutto, oggi andare a teatro è un atto di resistenza culturale: una persona decide di dedicare il proprio tempo a qualcosa che non è mai solo intrattenimento, ma indagine del nostro mondo e di come noi questo mondo lo abitiamo. Attraverso una storia come questa, piena di temi che hanno a che fare con le nostre ossessioni e drammi, penso sia possibile guardarci dentro. Possiamo rallentare la corsa e pensare. Credo che stia in tutto questo il senso di andare a teatro: essere abbastanza aperti da accogliere una domanda che innesca in noi una direzione, più che una risposta.

Matteo Franceschini – Per alimentare la scintilla della curiosità, per confrontarsi con altre realtà, per conoscere musica diversa, tecniche e pensieri. In questo modo si concepisce la creatività non solo come intuizione ma come sintesi della realtà che vive intorno a noi, degli oggetti, delle persone e delle sensazioni che stimolano la nostra percezione.

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